“Social Network: la morte del giornalismo?” Non è un caso che il titolo del panel – organizzato dall’Associazione giornalisti scuola di Perugia e moderato da Anna Piras – sia un interrogativo. Una domanda aperta quanto il futuro della professione, messa alla prova da rivoluzioni interne e da trasformazioni globali.

Quella avvenuta con i social media, ha ricordato Luca De Biase del Sole 24 Ore, è l’accelerazione di una rivoluzione già in atto. È stata la nascita del web a segnare la svolta, quel che è avvenuto prima è storia, quel che è accaduto dopo è ancora materia d’analisi.

I social media hanno introdotto nel giornalismo un elemento già presente nel world wide web: l’orizzontalità. La comunicazione non è più verticale, il ruolo di mediatore tipico del giornalista è stato soppiantato dall’immediatezza della rete, che scavalca gli ostacoli e le interpretazione di terzi consegnando direttamente le informazioni in pasto al “popolo della rete”. Quando i giornalisti si sono sentiti spogliati delle proprie vesti hanno gridato all’allarme. Nel 2006 si è annunciata l’imminente morte del NewYork Times, sono passati sette anni da allora e l’ultima copia della Grey Lady non è stata ancora stampata. “I giornali si salvano perché si sono sempre salvati. L’anima è sempre la stessa, cambia il modo di comunicarla.” Ha detto Marco Zatterin della Stampa, ricordando alla platea riunita nella Sala dei Notari l’orgoglio di essere giornalisti e il pericolo della disintermediazione causata dal cattivo utilizzo dei social media.

Un uso approssimativo, troppo concentrato sull’immediatezza dell’informazione è rischioso non solo per le aziende giornalistiche, ma soprattutto per il futuro della democrazia. Ricorda Zatterin: “ La disintermediazione avvenuta nel giornalismo è il sogno di chiunque vuole conservare il potere”. Nel momento in cui i politici twittano le proprie dichiarazioni direttamente ai cittadini, quest’ultimi si illudono di avere una comunicazione diretta con le istituzioni. Questo non sempre accade, sarebbe impossibile rispondere a tutte le richieste inoltrate dagli utenti sui social media, il tempo non è sufficiente. L’ipercomunicazione nasconde sempre delle zona d’ombra in cui è più semplice fidarsi degli slogan che approfondire i contenuti. Il dilemma è amletico: l’informazione in rete è democratica o approssimativa?

Inoltre, come ha sottolineato, Luca Di Biase, il lettore non è più passivo, è anzi diventato attivamente capace di partecipare alla produzione della notizia. Soprattutto il nuovo utente 2.0 è in grado di valutare la notizia attraverso il commento pubblico, un’ulteriore seccatura per chi fa informazione o un valore aggiunto per garantirne la qualità? Ennesino interrogativo senza risposta. In fondo i giornalisti esistono per fare domande, non per dare risposte. E finché le domande saranno necessarie, la sopravvivenza del mestiere è garantita. Dove e come porle, queste domande, è una una questione secondaria.

Alessia Mancini