Festival del giornalismo di Perugia, “Giornalismo di guerra”

Perugia, 22 aprile 2010, Centro Servizi G. Alessi – Oliviero Bergamini, inviato speciale della Redazione Esteri del Tg3, Gianluca Ales, di SkyTg24 e il generale B. Massimo Fogari, capo dell’Ufficio Pubblica Informazione dello Stato Maggiore della Difesa, spiegano il giornalismo di guerra in Italia. Introduce e media il dibattito Dario Moricone, giornalista Rai, dell’Associazione Scuola di Giornalismo di Perugia.

Durante la conferenza vengono proiettati due video creati dagli studenti della Scuola di Giornalismo di Perugia: uno ripercorre gli ultimi 50 anni del giornalismo di guerra; l’altro ricorda gli inviati italiani sequestrati o uccisi nelle ultime guerre.
Quanto si vuole far emergere dal dibattito è un cambiamento, in senso positivo, delle relazioni tra l’esercito italiano e gli inviati. Soprattutto in guerre “invisibili”, dove non esiste un vero e proprio campo di battaglia e che presentano perciò maggiori rischi (vedi gli attuali conflitti in Iraq e Afghanistan), fanno notare i relatori, è necessario appoggiarsi all’esercito, essere inquadrati tra i cosiddetti giornalisti “embedded”, “arruolati”.

L’”embedding”, sostiene Ales, è spesso l’unica possibilità per recarsi sul posto. Tuttavia questa pratica presenta dei limiti: quella che un giornalista “embedded” ha e può offrire non è che una copertura limitata del conflitto, visto esclusivamente da uno schieramento; spesso i contatti con i civili sono difficili; le notizie fornite dall’esercito sono quasi sempre favorevoli all’autorità militare; infine, evidenzia Bergamini, c’è sempre il rischio che tra il corrispondente e i militari si crei un rapporto di familiarità e affetto, con la conseguente creazione di un resoconto tendenzialmente positivo per l’esercito. Infine, tutti concordano nel fatto che esista un certo grado di censura – soprattutto in occasioni di eventi come quello di Nassiriya – dovuto soprattutto alla volontà da parte del governo di non far trapelare notizie sulla guerra. Nel qualificare positivamente l’esperienza con l’esercito italiano – e Ales concorda – Bergamini conclude: “meglio un’informazione limitata che l’assenza totale di informazione”.

Il generale Fogari, dal canto suo, spiega come negli ultimi anni i rapporti tra militari italiani e inviati siano migliorati. Da una parte c’è la maggiore accettazione dei giornalisti da parte delle forze armate; dall’altra c’è una codificazione, una regolamentazione dell’”embedding”, in passato legato alle conoscenze personali, in campo militare, del corrispondente. Il generale si contraddice su un punto: se sostiene che i giornalisti godano della libertà di vedere tutto ciò che chiedono di vedere, afferma però che in alcune occasioni viene impedito al giornalista di partecipare a determinate missioni per evitare rischi a lui e ai militari.

Viene affrontato anche il problema del rapporto con gli informatori e gli interpreti locali: se da un lato i contatti sul posto vengono ritenuti estremamente importanti, dall’altro bisogna stare in guardia verso la distorsione delle informazioni e verificare, nei limiti del possibile, l’affidabilità delle fonti.
A chi domanda come mai molti conflitti in diverse parti del mondo vengano completamente trascurati dai media italiani, Ales risponde che ciò è dovuto in parte all’assenza di truppe italiane in tali conflitti; ma, soprattutto, a una difficoltà oggettiva di far comprendere situazioni così estranee e distanti all’opinione pubblica italiana. Chi si assumerà l’onere di tale missione educativa?
Tirando le somme, sembra che niente di nuovo si profili nel panorama dell’informazione di guerra italiana. Resta la nostalgia, dal punto di vista giornalistico, del Vietnam; la cui lezione è ben servita, a quanto pare, a governi ed eserciti.