Rom e Sinti, non zingari. Il pregiudizio passa anche dalle parole

televideoE’ stato presentato, nella sede della Federazione Nazionale della Stampa Italiana, un vademecum rivolto ai professionisti dell’informazione sul delicato tema dei rom. La pubblicazione, che ha il bel titolo di una canzone del ’77 di Claudio Lolli, “Ho visto anche degli zingari felici”, offre contributi di esperti della materia e dell’informazione, arricchiti anche dall’intervento di Benedetto XVI all’audizione dei Rom, e si propone come strumento di lavoro per tutti i giornalisti che, fedeli allo spirito della loro professione, si prefiggano lo scopo di raccontare la realtà sociale senza usare stereotipi frutto dell’ignoranza, perché è anche con le parole giuste che si sconfiggono i pregiudizi.

Sull’autobus diretto al centro di Roma, per raggiungere la sede della FNSI, salgono alla fermata due donne rom con una nidiata di bambini, di un’età compresa tra i 2 e i 10 anni. “Occhio al portafoglio!” esclama una signora al marito in piedi accanto a lei. La donna dà voce al pensiero comune e la reazione di tutti è spontanea, di allerta contro un’eventuale possibilità di borseggio, così come spontaneamente si indossano gli occhiali scuri quando la luce troppo forte del sole ci acceca, o il berretto di lana ai primi fiocchi di neve.

E’ difficile sconfiggere i pregiudizi che nascono dalla non conoscenza. In realtà pochi di noi sanno, quasi nessuno conosce la cultura di questo popolo, perché sui mezzi di informazione si parla di rom soltanto per raccontare di tragedie di bimbi che muoiono nel rogo delle baracche o delle roulotte, oppure quando si raccontano efferati episodi di cronaca nera, o si descrivono raccapriccianti realtà sociali di un’infanzia costretta a mendicare e a vivere nell’indigenza e nella sporcizia. Certo la miseria può generare disagio, violenza, criminalità, ma questo vale in tutte le comunità. Chi ha fame può rubare, o delinquere, ma questo ovunque e da che mondo e mondo. Solo questo sono per noi i Rom o i Sinti, una serie infinita di pregiudizi e luoghi comuni che non fanno distinzione tra le responsabilità individuali e quelle di un intero popolo. Per questo non diamo loro neanche la dignità di essere chiamati con il loro vero nome e li definiamo semplicemente zingari, o nella migliore delle ipotesi nomadi, descrivendo così una caratteristica che non esiste, perché la maggior parte di loro vive qui ed è italiana, e solo una piccolissima parte è nomade nel senso vero del termine.

Zingari generalmente sporchi, brutti e cattivi, ci ricorda nel suo intervento Paolo Ciani della Comunità di Sant’Egidio, e ladri, aggiungiamo, e secondo una leggenda infamante dura a morire, persino ladri di bambini. Ogni tanto ci capita ancora di raccontare di piccole comunità in allerta per questo che è un motivo ricorrente di pregiudizio e rancore le cui radici affondano in secoli di ignoranza e superstizione.

Ricordate la orrenda menzogna dei secoli scorsi secondo cui gli ebrei uccidevano i bambini cristiani per il loro sangue, e che nella mente di molti europei si trasformò in una tragica convinzione, che fu alla base della “distrazione” pressoché generale nei confronti della persecuzione prima e della Shoah poi? Il meccanismo è sempre lo stesso e continua a ripetersi contro chi viene considerato diverso, quindi “non persona”. L’alternativa all’ignoranza è conoscere per non diffidare, accettare i valori di una cultura diversa che può arricchirci, apprezzandone le peculiarità e senza avere la presunzione di imporre la nostra come la migliore possibile, nel tentativo di un’omologazione a valori che spesso sarebbe meglio rileggere alla luce di una sensibilità nuova e altra.

Dice Nazareno Guarnieri, presidente della Federazione romanì, nel corso della conferenza stampa:”Io so per certo che non morirò in uno ospizio, perché la nostra è una cultura che mette sempre al centro la persona”. Come dire, vogliamo stabilire chi tra noi è più civile? Solo conoscendo e quindi accettando si possono fare percorsi insieme che portino al miglioramento delle condizioni sociali di Rom e Sinti e al superamento del disagio sociale. “E a proposito- aggiunge ancora Guarnieri – non siamo nomadi, e il 50% di noi è italiano da sempre. Occorre una politica abitativa pubblica normale, basta con i campi nomadi che alimentano il distacco, la segregazione, l’isolamento, il disprezzo e l’odio sociale”.

Il segretario dell’Associazione Stampa Romana, Paolo Butturini, racconta della percezione sbagliata che molti cittadini hanno rispetto ai Rom e Sinti. “Sono un milione e mezzo” gli ha detto sconsolato un tassista romano suggerendo l’immagine di una paese ormai in preda a un’invasione barbarica inarrestabile e devastatrice, e vengono quasi tutti dalla Romania, ed essere rom romeni, si sa, è “il peggio del peggio”. Nel nostro Paese in realtà questa popolazione è composta da circa 140 mila persone, la metà delle quali sono italiane e donne e bambini con “ansia di normalità”, non di omologazione e integrazione forzata, ma della semplice e naturale normalità della casa, della scuola, degli amici, dell’accettazione sociale che non faccia sentire stranieri a casa propria.

L’assessore al lavoro e alla Formazione della Regione Lazio, Mariella Zezza, fa suo l’appello di Roberto Natale, presidente della FNSI, a promuovere una comunicazione libera da ogni pregiudizio, ricordando che informare “vuol dire rendersi conto che tutto ciò che c’è dall’altra parte non è una minaccia, ma una risorsa.

Il fatto è che persiste in tutta Europa la convinzione che il rom non sia uguale agli altri, per questo, ammonisce Roberto Chinzari, segretario dell’Associazione giornalisti Scuola di Perugia, è necessario almeno usare le parole giuste per descrivere la loro realtà e non “barricarci nelle nostre convinzioni, scrivendo e dicendo imprecisioni. Sui quotidiani, nei servizi radio-televisivi il binomio “rom-romeno è diventato un marchio di fabbrica per brutti episodi, un’etichetta che definisce quello che succede ”prima che se ne abbia la certezza”. E così il pregiudizio dilaga, e con esso la discriminazione, mentre una buona conoscenza culturale di ciò che abbiamo di fronte “è il miglior scudo per proteggere dagli errori e dalla superficialità”. “E poi ricordarsi sempre – conclude Chinzari, che anche di fronte al peggiore dei crimini la responsabilità è sempre di un individuo, mai di una popolazione o di un’etnia”.

E se alla base di ogni espressione artistica c’è il patrimonio culturale e la cultura dell’informazione, importanti sono gli interventi di una giornalista-scrittrice, Bianca Stancanelli, che sull’argomento ha scritto un libro: “La fortuna e la vergogna” edito da Marsilio, e quello di Moni Ovadia, un artista che al teatro Quirino di Roma ha presentato uno spettacolo: “Senza confini – ebrei e zingari”, che ha dato voce soprattutto alla musica di grandi musicisti rom.

Spiega Moni Ovadia: ”E’ un recital di canti, musiche, storie di Rom, Sinti, ed Ebraiche che mettono in risonanza la comune vocazione delle genti in esilio, una vocazione che proviene dai tempi remoti e che in tempi più vicini a noi si fa solitaria, si carica di un’assenza che sollecita un ritorno, un’adesione, una passione, una responsabilità urgenti, improcrastinabili. “Senza Confini” è la nostra assunzione di responsabilità”.

Avvicinarsi quindi, anche e soprattutto attraverso il linguaggio della musica e del teatro, a un popolo di pace, che non ha mai dichiarato guerra a nessuno, che “per questo meriterebbe il premio Nobel per la pace”. Persino la loro persecuzione da parte dei nazisti è misconosciuta e sottovalutata (ne morirono nei campi di sterminio centinaia di migliaia). “I Rom vivono la vita, non la consumano – spiega Moni Ovadia – e ci danno lezione di civiltà”. Li percepiamo solo come un problema perché non sappiamo quasi niente della loro cultura e solo la conoscenza può aiutarci a capire ancora una volta che non c’è il buio oltre la siepe.

di Rita Piccolini