Nella peggiore delle sue declinazioni il giornalismo amplifica pregiudizi e ignoranza. Nella cattiva fede di un messaggio razzista, nella caduta in luoghi comuni e stereotipi, nella scelta di parole inadeguate. In questi casi il giornalista dismette il valore civile della professione: una situazione che porta a riflettere sui confini tra diritto di cronaca e obblighi di responsabilità nei confronti delle minoranze.
Di tutto questo si è discusso durante il convegno NewsRom. Informare senza pregiudizi, organizzato dall’Associazione giornalisti Scuola di Perugia e ospitato a Milano nella sede del Circolo della Stampa a Palazzo Bocconi. Promosso nell’ambito di “Dosta!” – la campagna di sensibilizzazione per combattere pregiudizi e stereotipi sui rom e i sinti sostenuta dal Consiglio d’Europa –, l’incontro si è concentrato sul ruolo dei mass media nella definizione dell’“altro” e, soprattutto, delle popolazioni rom.
A introdurre il tema è stata Eva Rizzini, giovane donna sinti, laureata in Scienze politiche e oggi attivista dell’Osservatorio sulle discriminazioni Articolo 3 di Mantova. «I media – ha spiegato – potrebbero essere un valido strumento di sensibilizzazione e di promozione delle diversità; purtroppo il nostro monitoraggio su 50 testate lombarde ci restituisce un quadro differente». “Arrivano i sinti e Guidizzolo trema. Comunità sul piede di guerra” (Voce di Mantova), “Piano antizingari. L’unico errore è la marcia indietro” (Libero), “Il codice rom per segnare gli appartamenti da rubare” (La Repubblica): sono solo alcuni esempi di titolazioni al limite del razzismo di cui si è resa responsabile la stampa italiana.
Le modalità con cui i media contribuiscono a diffondere sentimenti anti-rom sono sostanzialmente tre: utilizzando una terminologia inadeguata e semivolgare, approntando descrizioni piene di stereotipi e tendendo ad associare il reato all’etnia. Questo atteggiamento, da parte dei professionisti dell’informazione, ha la sua matrice in sentimenti diffusi nel senso comune della società perché – come ha spiegato Leonardo Piasere, docente di Discipline Demoantropologiche presso l’Università di Verona – “il giornalista non è un soggetto isolato e nella sua costruzione della realtà riproduce spesso sentimenti condivisi”.
La sfida per il giornalista diventerebbe quella di mantenersi estraneo ai pregiudizi del senso comune, nutrendosi invece di conoscenza e cultura. Tutte le credenze popolari, infatti, possono essere smascherate da un approfondimento storico. Prima fra tutte quella che fa dei rom degli incalliti ladri di bambini. «Si tratta – ha spiegato Piasere – di una credenza antica, riconducibile al XVI secolo, quando in Italia si credeva che i rom venissero dall’Egitto. Essendo frequenti i rapimenti di persone tra le due sponde del Mediterraneo, la figura del rom è stata associata al rapitore di bambini».
Se la storia smaschera i pregiudizi del passato, una buona informazione consente invece di vincere le false credenze moderne, con meno secoli alle spalle ma ugualmente radicate. L’idea, ad esempio, che i rom vengano tutti dalla Romania e che pratichino il nomadismo è un grande falso. In realtà l’etnia è originaria della valle del Gange, nel nord nell’India, e ormai solo 3,4% dei rom in Italia, in genere circensi, continua a spostarsi da una città all’altra.
Il giornalista informato e preparato è l’unico in grado di insinuare dei dubbi e di non irrobustire la cattiva coscienza della società. «Per far sì che questo sia possibile – ha concluso il giornalista del Quotidiano Nazionale Lorenzo Guadagnucci – il primo passo è cominciare a dare il giusto peso alle parole. La discriminazione parte dall’uso inadeguato di termini come “zingari” e di espressioni come “vu cumprà”, troppo spesso utilizzati nel nostro sistema di informazione».
Cristina Lonigro
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